Secondo appuntamento per 2021 battute per un anno di teatro: l’approdo, l’antologia del contest letterario di Teatri di Bari dedicato agli under 35. A turno pubblicheremo i racconti arrivati per ‘2021 battute per un anno di teatro’, che per l’XI edizione si avvale dell’incipit della giornalista e scrittrice Concita De Gregorio. Scopriamo ora il testo della terza classificata, Francesca Montanaro.
Incipit di Concita De Gregorio
E la nave va
La casa va venduta, le aveva detto al telefono il fratello. La linea era come sempre disturbata, riusciva a sentire una parola ogni dieci. Mi puoi chiamare per favore quando torni a terra, cosi riusciamo a parlare? E’ una cosa importante non ti pare? Aveva risposto lei. Torno a terra fra sei mesi, Sara. Io in nave ci vivo, ti ricordi? Questa frase per miracolo era arrivata intera, come un colpo di fucile. La casa dei nostri genitori va venduta, io a terra non torno. Fine della comunicazione. La nave, lei immaginava, doveva essere come quella del grande quadro appeso sul divano del loro vecchio soggiorno: lo scafo rosso. Il mare in tempesta. Quando erano bambini e il padre tornava dai suoi viaggi sempre, sempre, la prima cosa che diceva loro era: copritevi, ragazzi, mettetevi la sciarpa. Andiamo sul molo a prendere il vento. Non il sole, il vento.
Testo di Francesca Montanaro (3a classificata)
Il vento, al molo, soffiava più forte che in qualsiasi altro luogo. È quella la tua nave, papà? No, non ancora. È lontana la tua nave, papà? Non molto. Qual è la tua nave, papà?
Sara e Massimo non aspettavano che di imbarcarsi. Ad entrambi questa parola suonava straordinaria, immensa come la nave. Entrambi ci avevano creduto, sperato, sognato, ma alla fine solo Massimo era partito, Sara era rimasta. Non è una cosa per donne, le avevano detto, ci vuole coraggio. Cos’era il coraggio e cosa la fragilità, cos’aveva meno del padre e cosa meno del fratello, se l’era chiesto troppe volte, fino a rinunciare. Aveva il coraggio per affrontare il mare, le mancava il coraggio di ammetterlo.
La morte in tempesta, quella se la sarebbero aspettati. Quando erano bambini, se tirava vento, la madre diventava silenziosa e anche loro si zittivano. Il fiato della morte batteva sulle imposte. Il silenzio ne era la voce. Si abbracciavano. Non la nominavano, ma la sentivano stringersi a loro. La morte non si dice, si sa. E loro la sapevano, sapevano che la morte era parte del mare.
La madre non li portava al molo. Erano passati anni, quando a Sara capitò di vedere una donna sul pontile. La figura della madre non si può confondere. Ha contorni diversi, più marcati. Ti sembra vicina anche quand’è lontana, ne visualizzi i dettagli senza vederli, le rughe del volto, le macchie della pelle. La madre non guardava le barche, ma l’assenza di una barca, l’attracco vuoto, che poi sono diventati due. Sara la lasciò a prendere il vento. Non il sole, il vento. In nave ci vivo, ti ricordi? La madre si ricorda. Non può dimenticarlo. È un colpo di fucile.
È morta prima lei, la madre. Non l’avevano accettata, perché la morte non si accetta, ma saputa, aspettata. Una lunga malattia è il suo biglietto da visita, siede ai piedi del letto, familiarizza, da ospite abituale finisce per imporsi. Bara, abiti scuri, silenzio cupo. Ma che un uomo muoia senza ragione, che muoia solo perché è mortale, questo non lo si può sapere, accettarlo mai. Può forse morire un uomo che ha dominato il mare? Eppure, il padre è morto, e di una morte ordinaria, per un capriccio di fatalità. Così sembra a Sara, l’unica rimasta. Sola. La casa va venduta, le ha detto il fratello al telefono, ma non le resta altro di suo padre: casa, cose. Le pare che, finché la casa ci sarà, lui rimarrà vivo oltre la morte. O, se non vivo, almeno non morto: a galleggiare, come una barca sul mare.
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