tratto da “A birritta ccu ‘i ciancianeddi” di Luigi Pirandello
uno spettacolo della Compagnia Nest
adattamento e traduzione Francesco Niccolini
Regia Giuseppe Miale di Mauro
con in o.a. Valentina Acca, Mario Cangiano, Giuseppe Gaudino, Adriano Pantaleo
scenografia Luigi Ferrigno costumi Giovanna Napolitano musiche Flo disegno luci Paco Summonte
grafica e foto di scena Carmine Luino assistente scenografo Vincenzo Leone
assistente alla regia Raffaella Nocerino
organizzazione Carla Borrelli e Valeria Zinno
comunicazione e ufficio stampa Valeria Aiello
Pupi siamo. Lo spirito divino ci è entrato dentro e si è fatto pupo. Pupo io, pupi voi, pupi tutti.
E ogni pupo vuole rispetto, non per quello che è ma per quello che si crede di essere e per la parte che sta recitando. Quella parte ti può fare schifo, al tuo pupo gli sputeresti pure in faccia, ma soltanto quando sei solo davanti a lui. Perché dagli altri non vuoi sputi: dagli altri esigi rispetto.
Ecco la storia de “A birritta ccu ‘i ciancianeddi”, testo che Pirandello scrive prima in dialetto girgentino, e poi traduce in versione ridotta ed edulcorata in italiano. Storia feroce, come direbbe Visconti, ritratto di famiglia in un interno: Beatrice, una moglie scontenta, consapevole di essere tradita, sua madre, il fratello, una serva spaventata, una femmina di paese che tesse la trappola per cogliere in flagrante delitto il marito di Beatrice.
Se questa fosse una storia a parti invertite, cioè se fosse un marito a volere cogliere la moglie in flagrante delitto, sarebbe una cosa da poco che si concluderebbe con un delitto d’onore. Ma non è questo il caso: a denunciare è una donna, che addirittura nella versione originale del testo, vuole il divorzio e gli alimenti, e lo fa contro la volontà di tutta la famiglia. Perché non si affronta a campo aperto il tradimento, e il proprio dolore lo si offre a Dio, altro che mettere in piazza il marito infedele. Ma non basta: qui il problema è reso più grave dall’identità del “becco” o, forse meglio, dal pupo del cornificato. Perché se c’è una moglie tradita, ben presto scopriamo che il tradimento avviene con una donna sposata, e quel che è peggio sposata con uno scrivano/filosofo: Ciampa, don Noci nella versione siciliana. Che non ne vuol sapere di passare per becco.
Così, quando scoppia la tragedia e la coppia di amanti è colta in trappola, si scatena di tutto pur di arginare lo scandalo. Tutti sono pronti a mentire, dal delegato Spanò che deve raccogliere la denuncia, alla madre e al fratello della sposa tradita, a Ciampa stesso: tutti pronti a chiudere entrambi gli occhi e fare finta di niente.
Ma il prezzo da pagare per questa pace ricostruita è durissimo, feroce, cattivo. “A Birretta” è un testo che fa spavento: sa di violenza e d’ipocrisia, omertà e bigottismo. Il nome di Dio in questa casa viene usato sempre a sproposito, e serve a piegare la verità alle forme più false di perbenismo. Nella nostra Italietta bacchettona e provinciale, questa storia trae dal dialetto la sua più grande verità: la lingua italiana smorza i toni, rende tutto più ovattato. Il dialetto fa esplodere la cattiveria, l’odio e lo scherno. Per questo, quando ci siamo messi a riflette non abbiamo avuto nessun dubbio: era indispensabile ripartire dall’originale girgentino e non accontentarsi di adattarlo e tradurlo in
italiano, ma in napoletano. Meglio se una lingua partenopea un po’ invecchiata, non troppo moderna. Nessun ammiccamento né sconti, per una storia da poco, un rubinetto rotto che gocciola e che non ha bisogno di molto per mostrare gli scheletri che nasconde: un salotto, un piccolo mondo cattivo e pochi pupi, che un manipolo di attori si scambia e fa vivere dentro la loro banale tragedia da sottoscala ammuffito.
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