di Licia Lanera e Riccardo Spagnulo con Licia Lanera
In una piccola stanza bianca c’è una donna dalle profonde occhiaie e dai capelli rossi. E’ vestita di bianco e cammina su dei tacchi alti. A metà tra un’infermiera e il vestito della prima comunione. Confinata tra quattro pareti, in uno spazio immaginario, della mente, c’è quello che rimane della vita di una donna, la cui storia d’amore è finita con un addio. Lui l’ha lasciata per un altro uomo, lei lo ammazza. E’ un ritorno al massacro, in cui la narrazione si fonde con l’azione scenica e il bianco della purezza e dell’infermità si confonde con il nero della cronaca. Il rosso sta per il sangue. Il vero racconto riguarda un momento, quello del forchettone che la donna pianta nel collo dell’amato, senza pietà alcuna: inizia così la lotta esasperata tra la vita e la morte, che si conclude con l’annientamento finale. Lei non risparmia un dettaglio dell’assassinio; con brutale lucidità ricostruisce le sensazioni, le immagini, i respiri agonizzanti della vittima, le sue ultime forze, gli occhi vitrei. La recitazione è abolita: il testo, scomposto e sincopato, viene trasmesso dall’attrice attraverso una robotica sonnolenza, algida e asettica. L’uso del microfono rende ancora più dichiarato questo straniamento. Una sorta di incubo splatter costruito sui brutali racconti di noti assassini, uno fra tutti Luigi Chiatti. Ci ha colpito la loro lucidità nel raccontare degli eventi così gravi, la loro leggerezza, l’inconsapevolezza infantile, di fronte agli occhi attoniti dei parenti delle vittime. E’ l’inquietante straniamento di chi ragione non ha. E’ il muto grido di chi ha perso se stesso nella sua follia.
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