Il gatto e gli stivali

Teatro Kismet

Il gatto e gli stivali

Teatro Kismet OperA
Da Martedì 22 a Giovedì 24 novembre 2016 ore 10.00


NB I contenuti di questa pagina compongono la scheda didattica
che è possibile richiedere a scuole@teatridibari.it


Lo spettacolo

C’erano una volta tre fratelli.
“e che è successo?”
Muore il padre lasciando in eredità al più giovane dei figli un gatto, buono solo per finire in pentola.
“e che è successo?”
Il gatto non vuole finire arrosto e si industria per far raggiungere la felicità al suo padrone.
“e che è successo?”
Il gatto si scontra con il malvagio orco Millefacce e, stuzzicando la sua vanità, riesce a farlo trasformare in
un topolino per poterlo catturare e impossessarsi così del suo castello.
“e che è successo?”
Attraverso mille ostacoli il protagonista, che grazie al gatto è diventato “Marchese di Fruttasecca”, sposa la principessa Ciliegina, figlia del Re di Vallefruttata.
“e che è successo?”
Tutti vissero felici e contenti.
“e che è successo?”
Lo spettacolo è finito!

È questa una storia che pone l’attenzione su una qualità del “sentire” umano che tende ad essere soffocata, se non annullata: quella dell’istinto primordiale, quell’istinto che, quasi magicamente, conduce a discernere la giusta strada nella giungla del vivere; a riconoscere fra gli incontri quelli positivi; ad aver il coraggio di affrontare gravi pericoli per realizzare un sogno; a credere che i sogni possono essere realizzati, se li si nutre di significato concreto. Questo spettacolo è la terza tappa del lavoro registico di Lucia Zotti che, dopo i risultati di Un Regalo per Quicha e Storie di Streghe, si avventura nella realizzazione de Il Gatto e gli Stivali tratto dalla fiaba popolare Il gatto con gli stivali. E’ una storia interessante perché conduce l’attenzione su una qualità del “sentire” umano che tende ad essere soffocata, se non annullata: quella dell’istinto primordiale, quell’istinto che, quasi magicamente, conduce a discernere la giusta strada nella giungla del vivere; a riconoscere fra gli incontri quelli positivi; ad aver il coraggio di affrontare gravi pericoli per realizzare un sogno; a credere che i “sogni” possono essere realizzati, se li si nutre di significato concreto. Dedichiamo il nostro lavoro a tutte le infanzie che abbiamo incontrato e che continueremo ad incontrare con i nostri spettacoli, con l’augurio che conservino quell’istintualità troppo spesso sepolta da tecnologie seducenti e ridondanti.

Testo e regia: Lucia Zotti
Con: Monica Contini, Deianira Dragone / Marialuisa Longo, Nicola Marasciulo/ Michele Stella
Oggetti di scena, maschere e decorazioni: Massimiliano Massari
Musiche originali: Nicola Marasciulo
Costumi: Monica Contini
Progetto luci: Vincent Longuemare
Progetto scenografico: Maciullo, Longuemare
fascia d’età: 5 – 12 anni


La compagnia

La storia della compagnia del Teatro Kismet è una storia lunga e articolata, che ha le sue radici agli inizi degli anni Ottanta, quando i componenti del gruppo erano poco più che maggiorenni e quando nella città di Bari – dove il Kismet nasce e vive – lo spazio per la ricerca era ancora limitato. A partire dalla formazione con il maestro Carlo Formigoni, il curriculum della compagnia vede numerosi innesti, incontri e contaminazioni con nomi importantissimi del teatro nazionale ed internazionale: Marco Martinelli fondatore del Teatro delle Albe, Alfonso Santagata, Alan Maratrat sono alcuni degli artisti che in maniere diverse attraversano il Kismet. Inoltre, accanto a loro, passano dal Kismet figure nevralgiche anche da un punto di vista politico e storico: nel 1989 infatti la compagnia trova casa nello spazio di strada san Giorgio martire alla periferia di Bari, dove inaugura la sua attività con lo spettacolo “Quick Quick Slow”, dedicato alla lotta alla mafia e in occasione della quale presentazione intervennero personaggi quali Nando Dalla Chiesa e Leoluca Orlando. Stabile d’Innovazione per l’Infanzia e la Gioventù – come sancisce il MIBAC nel 1996 – il Teatro Kismet ha sempre prestato grandissima attenzione al teatro ragazzi, al lavoro su teatro e handicap mantenendo alto anche il livello delle produzioni per il pubblico adulto. È infatti su questi tre assi che si snoda la storia della compagnia, nata – come si accennava – nel 1981 da un progetto formativo condotto da Carlo Formigoni e maturata nei trent’anni successivi fra debutti, tournèe e premi. Con la nascita del Consorzio Teatri di Bari che vede insieme Kismet e Abeliano, matura anche una nuova collaborazione con la compagnia pugliese Senza Piume Teatro diretta da Damiano Nirchio: è lui a firmare la regia e la scrittura del primo spettacolo per l’infanzia dei Teatri di Bari “Ahia!”, presentato con grandissimo successo dal festival Maggio all’Infanzia 2016 e interpretato da Lucia Zotti e Raffaele Scarimboli.

http://www.teatrokismet.org/


chi l’ha già visto

“E sì che un gatto con gli stivali vorremmo averlo tutti, piccoli e grandi. Ma con la magia dell’impossibile è bene che siano prima di tutto i bimbi a giocarci. […] è il momento di lasciarsi affabulare da storie e storielle inventate per salvarsi la pelle dal mitico gatto con gli stivali.”  Antonella Gaeta – la Repubblica / Bari

“Quando comincia il magnifico, sebbene semplicissimo, quasi elementare spettacolo, “Il gatto e gli stivali” del Teatro Kismet Opera di Bari, scritto da Lucia Zotti, i bambini non si trattengono, si alzano in piedi, escono dalle file in cui stanno, avanzano verso il palcoscenico. Ridono tutti, in continuazione.”  Franco Cordelli – Corriere della Sera

“[…] e questo suo Gatto sembra avere tutti i requisiti per essere una fiaba che riesce a parlare ai più piccini di argomenti profondi con leggerezza e coinvolgente spettacolarità.”  Nicola Viesti – Corriere del Mezzogiorno


Prima della visione: spunti

Il gatto con gli stivali di Charles Perrault e due traduzioni:

A. LA TRADUZIONE DI COLLODI

Un mugnaio, venuto a morte, non lasciò altri beni ai suoi tre figliuoli che aveva, se non il suo mulino, il suo asino e il suo gatto. Così le divisioni furono presto fatte: né ci fu bisogno dell’avvocato e del notaro; i quali, com’è naturale, si sarebbero mangiata in un boccone tutt’intera la piccola eredità. Il maggiore ebbe il mulino. Il secondo, l’asino. E il minore dei fratelli ebbe solamente il gatto. Quest’ultimo non sapeva darsi pace, per essergli toccata una parte così meschina. “I miei fratelli”, faceva egli a dire, “potranno tirarsi avanti onestamente, menando vita in comune: ma quanto a me, quando avrò mangiato il mio gatto, e fattomi un manicotto della sua pelle, bisognerà che mi rassegni a morir di fame.” Il gatto, che sentiva questi discorsi, e faceva finta di non darsene per inteso, gli disse con viso serio e tranquillo: “Non vi date alla disperazione, padron mio! Voi non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per andare nel bosco; e dopo vi farò vedere che nella parte che vi è toccata, non siete stato trattato tanto male quanto forse credete”. Sebbene il padrone del gatto non pigliasse queste parole per moneta contante, a ogni modo gli aveva visto fare tanti giuochi di destrezza nel prendere i topi, or col mettersi penzoloni, attaccato per i piedi, or col fare il morto, nascosto dentro la farina, che finì coll’aver qualche speranza di trovare in lui un po’ di aiuto nelle sue miserie.

Appena il gatto ebbe ciò che voleva, s’infilò bravamente gli stivali, e mettendosi il sacco al collo, prese le corde colle zampe davanti e se ne andò in una conigliera, dove c’erano moltissimi conigli. Pose dentro al sacco un po’ di crusca e della cicerbita: e sdraiandosi per terra come se fosse morto, aspettò che qualche giovine coniglio, ancora novizio dei chiapperelli del mondo, venisse a ficcarsi nel sacco per la gola di mangiare la roba che c’era dentro. Appena si fu sdraiato, ebbe D”color: #333333;”>cglio, giovane d’anni e di giudizio, che entrò dentro al sacco: e il bravo gatto, tirando subito la funicella, lo prese e l’uccise senza pietà né misericordia. Tutto glorioso della preda fatta andò dal Re, e chiese di parlargli. Lo fecero salire nei quartieri del Re, dove entrato che fu fece una gran riverenza al Re, e gli disse: “Ecco, Sire, un coniglio di conigliera che il signor marchese di Carabà”, era il nome che gli era piaciuto d: justify;”>
Un’altra volta andò a nascondersi fra il grano, tenendo sempre il suo sacco aperto; e appena ci furono entrate dentro due pernici, tirò la corda e le acchiappò tutte e due. Corse quindi a presentarle al Re, come aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re gradì moltissimo anche le due pernici e gli fece dare la mancia. Il gatto in questo modo continuò per due o tre mesi a portare di tanto in tanto al Re la selvaggina della caccia del suo padrone.

Un giorno avendo saputo che il Re doveva recarsi a passeggiare lungo la riva del fiume insieme alla sua figlia, la più bella Principessa del mondo, disse al suo padrone: “Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è fatta: voi dovete andare a bagnarvi nel fiume, e precisamente nel posto che vi dirò io: quanto al resto, lasciate fare a me”. Il marchese di Carabà fece tutto quello che gli consigliò il suo gatto, senza sapere a che cosa gli avrebbe potuto giovare. Mentre egli si bagnava, il Re passò di là; e il gatto si messe a gridare con quanta ne aveva in gola: “Aiuto, aiuto! affoga il marchese di Carabà”. A queste grida, il Re messe il capo fuori dallo sportello della carrozza e, riconosciuto il gatto, che tante volte gli aveva portato la selvaggina, ordinò alle guardie che corressero subito in aiuto del marchese di Carabà. Intanto che tiravano su, fuori dell’acqua, il povero Marchese, il gatto avvicinandosi alla carrozza raccontò al Re che mentre il suo padrone si bagnava, i ladri erano venuti a portargli via i suoi vestiti, sebbene avesse gridato al ladro con tutta la forza dei polmoni. Il furbo trincato aveva nascosto i panni sotto un pietrone. Il Re diè ordine subito agli ufficiali della sua guardaroba di andare a prendere uno dei più sfarzosi vestiari per il marchese di Carabà. Il Re gli usò mille carezze, e siccome l’abito che gli avevano portato in quel momento faceva spiccare i pregi della sua persona (perché era bello e benissimo fatto), la Principessa lo trovò simpatico e di suo genio: e bastarono poche occhiate del marchese di Carabà, molto rispettose ma abbastanza tenere, perché ella ne rimanesse innamorata cotta. Volle il Re che salisse nella sua carrozza, e facesse la passeggiata con essi. Il gatto, contentissimo di vedere che il suo disegno cominciava a pigliar colore, s’avviò avanti; e avendo incontrato dei contadini, che segavano, disse loro: “Buona gente che segate il fieno, se non dite al Re che il prato segato da voi appartiene al marchese di Carabà, sarete tutti affettati fini fini come carne da far polpette”. Il Re infatti domandò ai segatori di chi fosse il prato che segavano. “È del marchese di Carabà”, dissero tutti a una voce perché la minaccia del gatto li aveva impauriti. “Voi avete di bei possessi”, disse il Re al marchese di Carabà. “Lo vedete da voi, Sire”, rispose il Marchese. “Questa è una prateria, che non c’è anno che non mi dia una raccolta abbondantissima.” Il bravo gatto, che faceva sempre da battistrada, incontrò dei mietitori, e disse loro: “Buona gente che segate il grano, se non direte che tutto questo grano appartiene al signor marchese di Carabà, sarete stritolati fini fini come carne da far polpette”. Il Re, che passò pochi minuti dopo, volle sapere a chi appartenesse tutto il grano che vedeva. “È del signor marchese di Carabà”, risposero i mietitori. E il Re se ne rallegrò col Marchese. Il gatto, che trottava sempre avanti la carrozza, ripeteva sempre le medesime cose a tutti quelli che incontrava lungo la strada; e il Re rimaneva meravigliato dei grandi possessi del signor marchese di Carabà.

Finalmente il gatto arrivò a un bel castello, di cui era padrone un orco, il più ricco che si fosse mai veduto; perché tutte le terre, che il Re aveva attraversate, dipendevano da questo castello. Il gatto s’ingegnò di sapere chi era quest’uomo, e che cosa sapesse fare: e domandò di potergli parlare, dicendo che gli sarebbe parso sconvenienza passare così accosto al suo castello senza rendergli omaggio e riverenza. L’orco l’accolse con tutta quella cortesia che può avere un orco; e gli offrì da riposarsi. “Mi hanno assicurato”, disse il gatto, “che voi avete la virtù di potervi cambiare in ogni specie d’animali; e che vi potete, per dirne una, trasformare in leone e in elefante.” “Verissimo!”, rispose l’orco bruscamente, “e per darvene una prova, mi vedrete diventare un leone.” Il gatto fu così spaventato dal vedersi dinanzi agli occhi un leone, che s’arrampicò subito su per le grondaie, ma non senza fatica e pericolo, a cagione dei suoi stivali, che non erano buoni a nulla per camminare sulle grondaie de’ tetti. Di lì a poco, quando il gatto si avvide che l’orco aveva ripresa la sua forma di prima, calò a basso e confessò di avere avuto una gran paura. “Mi hanno per di più assicurato”, disse il gatto, “ma questa mi par troppo grossa e non la posso bere, che voi avete anche la virtù di prendere la forma dei più piccoli animali; come sarebbe a dire, di cambiarvi, per esempio, in un topo o in una talpa: ma anche queste son cose, lasciate che ve lo ripeta, che mi paiono sogni dell’altro mondo!” “Sogni?”, disse l’orco. “Ora vi farò veder io!…” E nel dir così, si cangiò in sorcio, e si messe a correre per la stanza. Ma il gatto, lesto come un baleno, gli s’avventò addosso e lo mangiò.

Intanto il Re che, passando da quella parte, vide il bel castello dell’orco, volle entrarvi. Il gatto, che sentì il rumore della carrozza che passava sul ponte-levatoio del castello, corse incontro al Re e gli disse: “Vostra Maestà sia la benvenuta in questo castello del signor marchese di Carabà”. “Come! signor Marchese!”, esclamò il Re. “Anche questo castello è vostro? Non c’è nulla di più bello di questo palazzo e delle fabbriche che lo circondano; visitiamolo all’interno, se non vi scomoda.” Il Marchese dette la mano alla Principessa; e seguendo il Re, che era salito il primo, entrarono in una gran sala, dove trovarono imbandita una magnifica merenda, che l’orco aveva fatta preparare per certi suoi amici che dovevano venire a trovarlo, ma che non avevano ardito di entrar nel castello, perché sapevano che c’era il Re. Il Re, contento da non potersi dire, delle belle doti del marchese di Carabà, al pari della sua figlia, che n’era pazza, e vedendo i grandi possessi che aveva, dopo aver vuotato quattro o cinque bicchieri, gli disse: “Signor Marchese! se volete diventare mio genero, non sta che a voi”. Il marchese, con mille reverenze, gradì l’alto onore fattogli dal Re, e il giorno dopo sposò la Principessa. Il gatto diventò gran signore, e se seguitò a dar la caccia ai topi, lo fece unicamente per passatempo.

Godersi in pace una ricca eredità, passata di padre in figlio, è sempre una bella cosa: ma per i giovani, l’industria, l’abilità e la svegliatezza d’ingegno valgono più d’ogni altra fortuna ereditata.
Da questo lato, la storia del gatto del signor marchese di Carabà è molto istruttiva, segnatamente per i gatti e per i marchesi di Carabà.


B. LA TRADUZIONE DI ELENA GIOLITTI

Un mugnaio lasciò per eredità ai suoi tre figli solo il mulino, un asino e un gatto. Le parti furono presto fatte: non vi fu bisogno né d’avvocati né di notai. Costoro si sarebbero mangiati in un boccone il povero patrimonio. Il figlio maggiore ebbe il mulino, il secondo l’asino, e il più giovane non ebbe che il gatto.
Quest’ultimo non sapeva darsi pace per avere avuto una parte così misera:
– I miei fratelli, – diceva, – si potranno guadagnare onestamente la vita mettendosi in società; ma quanto a me, quando mi sarò mangiato il gatto e colla sua pelle mi sarò fatto un manicotto, dovrò rassegnarmi a morir di fame!
Il Gatto, che aveva sentito questo discorso, ma aveva fatto finta di non accorgersene, gli disse con aria seria e posata:
– Non state ad affliggervi, caro padrone; non dovete far altro che trovarmi un sacco e farmi fare un paio di stivali per camminare in mezzo ai boschi, e vedrete come la sorte non sia stata tanto cattiva con voi quanto credete.
Il padrone del gatto non faceva un grande affidamento sulle sue parole, ma gli aveva visto fare tanti di quei giochi di destrezza nel prendere topi o sorcetti (come quando il gatto si lasciava pendere per i piedi, o si nascondeva nella farina facendo il morto) che non disperò completamente di trovare in lui un po’ d’aiuto nella sua miseria. Quando il Gatto ebbe ottenuto quel che aveva chiesto, infilò bravamente i suoi stivali e, mettendosi il sacco in spalla, ne prese i cordoni con le due zampe davanti e se ne andò in una conigliera dove c’era un gran numero di conigli. Mise nel sacco un po’ di crusca e di cicerbita e, sdraiatosi in terra come se fosse morto, egli aspettò che qualche coniglietto ancora poco edotto delle astuzie di questo mondo venisse a ficcarsi nel suo sacco, per mangiare quel che vi aveva messo. Non appena si fu disteso in terra egli fu accontentato: un coniglietto sventato entrò nel sacco e il bravo gatto, tirandone subito i cordoni, lo prese e lo ammazzò senza misericordia. Tutto fiero della sua preda, se ne andò dal Re e domandò di parlargli. Lo fecero salire nelle stanze del Re dov’egli entrò, fece una grande riverenza, e disse al Re:
– Ecco qui, Maestà, un coniglio di conigliera che il signor Marchese di Carabas, – (questo era il nome che gli era saltato il ticchio di dare al suo padrone), – mi ha incaricato di presentarvi da parte sua.
– Di’ al tuo padrone, – rispose il Re, – che lo ringrazio e gradisco molto il suo regalo.
Un’altra volta, il Gatto andò a nascondersi in un campo di grano, sempre col sacco aperto, e quando due pernici vi furono entrate, tirò i cordoni e le acchiappò tutte e due. Poi andò a offrirle al Re, come già aveva fatto per il coniglio di conigliera. Il Re accettò nuovamente con piacere le due pernici e gli fece dare una mancia. Il Gatto continuò in tal modo durante due o tre mesi a portare al Re di quando in quando la selvaggina delle bandite del suo padrone. Un giorno, avendo saputo che il Re doveva recarsi a passeggiare lungo la riva del fiume, insieme alla figlia, la più bella principessa del mondo, il Gatto disse al suo padrone:
– Se date retta a un mio consiglio, la vostra fortuna è bell’e fatta: dovete andare a fare un bagno nel fiume, e precisamente nel posto ch’io v’indicherò; quanto al resto, lasciate fare a me.
Il Marchese di Carabas seguì il consiglio del Gatto, senza sapere a che gli avrebbe potuto servire. Intanto che lui faceva il bagno, il Re passò di lì, e il Gatto si mise a gridare con quanto fiato aveva in gola:
– Aiuto! Aiuto! Il Marchese di Carabas sta affogando!
A queste grida, il Re si affacciò allo sportello della carrozza e riconosciuto il Gatto, che tante volte gli aveva portato la selvaggina, ordinò alle sue guardie che corressero subito in aiuto del Marchese di Carabas.
Nel mentre che tiravano su dall’acqua il povero Marchese, il Gatto si avvicinò alla berlina del Re e gli disse che, intanto che il suo padrone faceva il bagno, alcuni ladri erano venuti a portargli via tutti i vestiti, sebbene lui avesse gridato «al ladro!» con tutte le sue forze. Il furbacchione li aveva nascosti sotto una grossa pietra.
Il Re ordinò immediatamente agli ufficiali addetti al guardaroba reale di andare a prendere uno dei suoi abiti più sfarzosi per il Marchese di Carabas. Intanto il Re gli faceva mille cortesie: e poiché i bei vestiti che gli avevano portati mettevano in valore la sua persona (egli era assai bello e ben fatto), la figlia del Re lo trovò proprio di suo gradimento, e appena il Marchese di Carabas le ebbe lanciato due o tre occhiate molto rispettose, ma abbastanza tenere, lei ne divenne innamorata cotta. Il Re volle ch’egli salisse nella sua berlina e proseguisse con loro la passeggiata. Il Gatto, felice nel vedere che il suo piano cominciava a riuscire, corse avanti, e avendo incontrato alcuni contadini che falciavano in un prato, disse loro:
– Brava gente che falciate, se non dite al Re che questo prato appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini, come carne da polpette!
Il Re non tardò a chiedere ai falciatori di chi fosse il prato che stavano falciando.
– È del signor Marchese di Carabas, – risposero ad una voce, perché la minaccia del Gatto li aveva molto impauriti.
– Avete una bella proprietà, – disse il Re al Marchese di Carabas.
– Come dite voi, Maestà, – rispose il Marchese, – infatti è una prateria che ogni anno non manca di fruttarmi un buon raccolto.
Il bravo gatto, che continuava a far da battistrada, incontrò dei mietitori e disse loro:
– Brava gente che mietete, se non dite che tutto questo grano appartiene al signor Marchese di Carabas, sarete tutti triturati a pezzettini, come carne da polpette!
Il Re, che passò subito dopo, volle sapere a chi appartenessero tutti i campi di grano che vedeva.
– Al signor Marchese di Carabas, – risposero i mietitori, e il Re si rallegrò nuovamente col Marchese. Il Gatto, che correva sempre avanti alla berlina, continuava a dire la stessa cosa a tutti coloro che incontrava; e il Re rimaneva meravigliato degl’immensi possedimenti del Marchese di Carabas.
Il bravo gatto arrivò finalmente davanti a un bel castello il cui padrone era un orco, il più ricco che mai si sia veduto; infatti, tutte le terre che il Re aveva attraversate erano alle dipendenze di quel castello.
Il Gatto cercò subito di sapere chi era quell’orco e che cosa faceva e, saputolo, chiese di parlargli, dicendo che non aveva voluto passare così vicino al suo castello, senza aver l’onore di venirlo ad ossequiare.
L’Orco lo ricevette con tutta la cortesia che può avere un orco, e lo fece accomodare.
– M’hanno assicurato, – disse il Gatto, – che voi avete il dono di cambiarvi in ogni specie d’animali, e potete, per esempio, trasformarvi in leone o in elefante.
– È verissimo! – rispose l’Orco bruscamente, – e per darvene una prova, mi vedrete diventare leone.
Il Gatto fu così spaventato di vedersi un leone davanti agli occhi che raggiunse al più presto le grondaie, non senza fatica né pericolo per via degli stivali che, per camminare sulle tegole, non valevano proprio nulla.
Di lì a poco, il Gatto, avendo visto che l’Orco aveva ripreso il suo primo sembiante, scese giù dal tetto e confessò di aver avuto una bella paura.
– Mi hanno assicurato, – disse il Gatto, – ma non riesco a crederlo, che avete anche il potere di prendere la forma dei più piccoli animali, per esempio, di cambiarvi in un topo, o in un sorcetto; vi confesso che la cosa mi sembra assolutamente impossibile.
– Impossibile? – rispose l’Orco, – adesso lo vedrete!
Nel dir così, si trasformò in un sorcio che cominciò a correre per la stanza. Il Gatto, non appena l’ebbe scorto, gli si gettò addosso e lo mangiò. Intanto il Re, che passando vide il bel castello dell’Orco, volle entrare a visitarlo. Il Gatto, udendo il rumore della berlina che passava sul ponte levatoio, corse incontro al Re e gli disse:
– La maestà vostra sia la benvenuta nel castello del signor Marchese di Carabas.
– Ma come, Marchese! – esclamò il Re, – anche questo castello è roba vostra! Nulla è più bello di questo cortile e di tutti i fabbricati che lo circondano; si può vederlo dentro, se vi aggrada?
Il Marchese dette la mano alla giovane principessa, e seguendo il Re che era salito per primo, entrarono in un salone ove trovarono imbandita una splendida merenda che l’Orco aveva fatto preparare per certi suoi amici; essi dovevano venire a trovarlo proprio in quel giorno ma, sapendo che il Re vi si trovava, non avevano osato entrare. Il Re, entusiasta delle belle doti del signor Marchese di Carabas, così come sua figlia n’era pazza, e vedendo i grandi possedimenti di lui, gli disse, dopo aver bevuto quattro o cinque bicchieri:
– Signor Marchese, se volete diventare mio genero, dipende solo da voi!
Il Marchese, con mille riverenze, accettò l’onore che il Re gli faceva e quel giorno stesso sposò la Principessa. Il Gatto divenne un gran signore e seguitò ad andare a caccia di topi solo per divertimento.
La morale della favola
Sara Melauri Cerrini (in Giornale dei genitori, dicembre 1971) accusa la fiaba Il Gatto con gli stivali di farsi portatrice di una morale decisamente discutibile: con l’astuzia e l’inganno si può divenire potenti come i re e, in mancanza di doti naturali, è bene affidarsi a chi conosce i trucchi dei potenti, per esempio un essere furbo e politico come il gatto.
Sulla stessa rivista, qualche mese dopo (marzo – aprile 1972), Laura Conti scrive questa difesa del Gatto con gli stivali:
… Voglio raccontare come l’ho vissuta io, da bambina e cioè mezzo secolo fa, la storia del Gatto con gli stivali. Anzitutto il Gatto, come il suo padroncino e come me, era Piccolo in un mondo di Grandi; ma i suoi stivali lo mettevano in grado di fare dei passi lunghissimi, cioè di uscire dal suo stato di piccolezza pur rimanendovi, di fare grandi passi pur continuando a essere un piccolo gatto. Anch’io, volevo restare piccola ma fare cose da grande, anzi battere i grandi sul loro stesso terreno… Il rapporto piccolo-grande usciva poi dal senso proprio, delle dimensioni, per proiettarsi in un senso figurato. Il Gatto, oltre a essere piccolo, è anche sottovalutato, giudicato inutile: la sua presenza in casa veniva giudicata un mio capriccetto fastidioso. Perciò mi piaceva molto che l’animaletto inutile diventasse un potente alleato. Che cosa il Gatto facesse non m’importava nulla, tanto che l’ho completamente dimenticato: c’è voluto il «Giornale dei Genitori» per ricordarmi le sue furbizie diplomatiche e riconosco che si tratta di diplomazia volgare. Ma a me le azioni del Gatto non importavano, mi importavano i risultati: mi importava che si potesse vincere giocando sul perdente, se posso esprimere con linguaggio adulto una sensazione infantile (infatti il bambino che ereditava il Gatto veniva, sul principio, compianto per l’insignificante eredità). Dunque mi affascinava il doppio rovesciamento, da piccolo in grande e da perdente in vincente. Non m’interessava la vittoria in sé: mi interessava la vittoria improbabile.
La duplice natura del Gatto (piccolo-grande, perdente-vincente) soddisfaceva non solo il desiderio paradossale di essere grande pur mentre ero piccola, ma anche l’altro desiderio paradossale, di veder vincere una creatura che continuava a rimanere un piccolo, debole, morbido gattino. Io detestavo i forti, nelle fiabesche lotte tra forti e deboli, e parteggiavo per i deboli; ma se i deboli vincono, c’è il rischio che si debba considerarli forti, e cioè odiarli. La storia del Gatto con gli stivali mi sottraeva a questo rischio, perché il Gatto, anche vincendo la partita contro il Re, con¬tinuava a rimanere un Gatto. Si trattava cioè della situazione Davide-Golia, ma con un Davide che continuava a rimanere un pastorello, e non diventava mai il Potente Re Davide; non è che faccia questo paragone a posteriori: alla stessa età in cui mi si raccontava la storia del Gatto mi si raccontava anche la Storia Sacra, e il fatto che il pastorello diventasse Re non mi piaceva affatto, a me piaceva soltanto che con la sua piccola fionda abbattesse il gigante. A differenza di Davide, il Gatto vinceva il Re ma non diventava Re, restava Gatto… Il contenuto poteva anche essere conformista, reazionario; ma il movimento era ben diverso, poiché dimostrava che nella vita quel che conta non è l’amicizia dei Re ma l’amicizia dei Gatti, cioè delle piccole creature sottovalutate e deboli, che sanno imporsi ai potenti.
Anche Gianni Rodari in Grammatica della fantasia. Introduzione all’arte di inventare storie, Einaudi 1973, difende la fiaba e scrive: Il bambino riesce forse a sentire che il nocciolo più autentico della fiaba non è la carriera del falso marchese di Carabas, ma il rapporto tra il giovane e il gatto, tra l’orfanello e l’animale.


Quando il gatto…era una gatta. Ancora due versioni

A) COSTANTINO FORTUNATO
quasi la stessa storia raccontata da Giovan Francesco Straparola (metà del ‘500)

Trovavasi in Boemia una donna, Soriana per nome chiamata; ed era poverissima, e aveva tre figliuoli, l’uno di quali dicevasi Dusolino, l’altro Tesifone, il terzo Costantino Fortunato. Costei altro non aveva al mondo che di sostanzia fosse, se non tre cose: cioè uno albuolo, nel quale le donne impastano il pane, una panàra, sopra la quale fanno il pane, ed una gatta. Soriana, già carica d’anni, venendo a morte, fece l’ultimo suo testamento; e a Dusolino suo figliuolo maggiore lasciò l’albuolo, a Tesifone la panàra e a Costantino la gatta. Morta e sepolta la madre, le vicine per loro bisogna quando l’albuolo quando la panàra ad imprestido lor chiedevano; e perché sapevano loro esser poverissimi, gli facevano una focaccia, la quale Dusolino e Tesifone mangiavano, lasciando da parte Costantino minor fratello. E se Costantino gli addimandava cosa alcuna, rispondevano che egli andasse dalla sua gatta, che glie ne darebbe. Per il che il povero Costantino con la sua gatta assai pativa.
La gatta, che era fatata, mossa a compassione di Costantino e adirata contra i duo fratelli che sí crudelmente lo trattavano, disse: – Costantino, non ti contristare; perciò che io provederò al tuo e al viver mio. – Ed uscita di casa, se n’andò alla campagna; e fingendo dormire, prese un lepore, che a canto le venne, e l’uccise. Indi andata al palazzo regale e veduti alcuni corteggiani, dissegli voler parlare col re: il qual, inteso che era una gatta che parlar gli voleva, fecela venire alla presenza sua; e addimandatala che cosa richiedesse, rispose che Costantino suo patrone gli mandava donare un lepore che preso aveva: e appresentollo al re. Il re, accettato il dono, l’addimandò chi era questo Costantino. Rispose la gatta, lui esser uomo che di bontá, di bellezza e di potere non aveva superiore. Onde il re le fece assai accoglienze, dandole ben da mangiare e ben da bere. La gatta, quando fu ben satolla, con la sua zampetta con bel modo, non essendo d’alcuno veduta, empí la sua bisciaccia, che da lato teneva, d’alcuna buona vivanda; e tolta licenzia dal re, a Costantino portolle. I fratelli, vedendo i cibi di quai Costantino trionfava, li chiesero che con loro i participasse; ma egli, rendendogli il contracambio, li denegava. Per il che tra loro nacque una ardente invidia, che di continovo rodeva loro il core.

Costantino, quantunque fusse bello di faccia, nondimeno, per lo patire ch’aveva fatto, era pieno di rogna e di tigna che gli davano grandissima molestia; e andatosene con la sua gatta al fiume, fu da quella da capo a piedi diligentemente leccato e pettinato, e in pochi giorni rimase del tutto liberato. La gatta, come dicemmo di sopra, molto continoava con presenti il palazzo regale, e in tal guisa sostentava il suo patrone. E perché oramai rincresceva alla gatta andar tanto su e giú, e dubitava di venire in fastidio alli corteggiani del re, disse al patrone: – Signor, se tu vuoi far quanto ti ordinerò, in breve tempo farotti ricco. – E in che modo? – disse il patrone. – Rispose la gatta: – Vieni meco, e non cercar altro, ché sono io al tutto disposta di arricchirti. – E andatisi insieme al fiume, nel luoco ch’era vicino al palazzo regale, la gatta spogliò il patrone e di commun concordio lo gettò nel fiume: dopo si mise ad alta voce gridare: – Aiuto, aiuto! correte, ché messer Costantino s’annega! – Il che sentendo il re, e considerando che molte volte l’aveva appresentato, subito mandò le sue genti ad aiutarlo. Uscito di acqua messer Costantino e vestito di nuovi panni, fu menato dinanzi al re, il quale lo ricevette con grandi accoglienze; e addimandatolo per qual causa era stato gettato nel fiume, non poteva per dolor rispondere: ma la gatta, che sempre gli stava da presso, disse: – Sappi, o re, che alcuni ladroni avevano per spia il mio patrone esser carico di gioie per venire a donarle a te, e del tutto lo spogliorono; e credendo dargli morte, nel fiume lo gettorono, e per mercé di questi gentil’uomini fu da morte campato. – Il che intendendo, il re ordinò che fusse ben governato ed atteso. E vedendolo bello, e sapendo lui esser ricco, deliberò di dargli Elisetta sua figliuola per moglie, e dotarla di oro, di gemme e di bellissime vestimenta. Fatte le nozze e compiuti i triunfi, il re fece caricare dieci muli d’oro e cinque di onoratissime vestimenta, e a casa del marito, da molta gente accompagnata, la mandò.

Costantino, vedendosi tanto onorato e ricco divenuto, non sapeva dove la moglie condurre, e fece consiglio con la sua gatta; la quale disse: – Non dubitar, patrone mio, ché ad ogni cosa faremo buona provisione. – Cavalcando ogni uno allegramente, la gatta con molta fretta camminò avanti; ed essendo dalla compagnia molto allontanata, s’incontrò in alcuni cavallieri, a’ quali ella disse: – Che fate quivi, o poveri uomini? Partitevi presto, che una gran cavalcata di gente viene, e fará di voi ripresaglia; ecco che l’è qui vicina: udite il strepito delli nitrenti cavalli! – I cavallieri spauriti dissero: – Che deggiamo adunque far noi? – Ai quali la gatta rispose: – Farete a questo modo. Se voi sarete addimandati di cui sete cavallieri, rispondete animosamente: Di messer Costantino, e non sarete molestati. – E andatasi la gatta più innanzi, trovò grandissima copia di pecore e armenti, e con li lor patroni fece il somigliante; e a quanti per strada trovava, il simile diceva. Le genti che Elisetta accompagnavano, addimandavano: – Di chi siete cavallieri, e di chi sono tanti belli armenti? – e tutti ad una voce rispondevano: – Di messer Costantino. – Dicevano quelli che accompagnavano la sposa: – Adunque, messer Costantino, noi cominciamo sopra ‘l tener vostro entrare? – ed egli col capo affermava di sí; e parimenti d’ogni cosa ch’era addimandato, rispondeva di sí. E per questo la compagnia gran ricco lo giudicava.

Giunta la gatta ad uno bellissimo castello, trovò quello con poca brigata; e disse: – Che fate, uomini da bene? non vi accorgete della roina che vi viene adosso? – Che? – disseno i castellani. – Non passerà un’ora, che verrano qua molti soldati e vi taglieranno a pezzi. Non udite i cavalli che nitriscono? non vedete la polve in aria? E se non volete perire, togliete il mio consiglio, ché tutti sarete salvi. S’alcuno v’addimanda: Di chi è questo castello? diteli: Di messer Costantino Fortunato. – E così fecero. Aggiunta la nobil compagnia al bel castello, addimandò i guardiani di cui era; e tutti animosamente risposero: – Di messer Costantino Fortunato. – Ed entrati dentro, onorevolmente alloggiarono. Era di quel luogo castellano il signor Valentino, valoroso soldato, il quale poco avanti era uscito dal castello per condurre a casa la moglie che novamente aveva presa; e per sua sciagura, prima che aggiungesse al luogo della diletta moglie, gli sopragiunse per la strada un subito e miserabile accidente, per lo quale immantinenti se ne morì. E Costantino Fortunato del castello rimase signore. Non passò gran spazio di tempo, che Morando, re di Boemia, morì; ed il popolo gridò per suo re Costantino Fortunato per esser marito di Elisetta figliuola del morto re, a cui per successione aspettava il reame. Ed a questo modo Costantino, di povero e mendico, signore e re rimase; e con la sua Elisetta gran tempo visse, lasciando di lei figliuoli successori nel regno.


B) CAGLIUSO
quasi la stessa storia raccontata in napoletano da Giambattista Basile (1566-1632), nella riscrittura di Roberto De Simone

C’era una volta nella città di Napoli mia un vecchio pezzente dalla nascita, il quale era così sfigato, sbricio, culinterra, disperato, pitocco, e senza una pezza di crespa sul crespo del suo crispano1, che andava nudo come un pidocchio. Giunto al momento in cui si scuotono i sacchi della vita quasi vuoti, chiamò a sé Oraziello e Cagliuso, suoi figli, e disse: – Eccomi ormai citato, a termine di contratto, per il debito che ho con la Natura; e credetemi, da buoni cristiani, che io avrei gran piacere di abbandonare questo porcile di travagli, se non avessi il cruccio di lasciarvi sulla nuda terra, poveri per quanto è grande Santa Chiara, vagabondi alle cinque vie di Melito e senza un soldo, netti come bacile di barbiere, magri come gendarmi, asciutti come un osso di prugna, che avete quanto porta nella zampa una mosca, e se correte cento miglia non vi cade uno spicciolo dalle tasche, perché la mia sfiga mi ha ridotto lì dove cacano i tre cani, e non ho altro se non questo straccio di vita, e come mi vedi così mi scrivi, ché sempre, come sapete, ho fatto sbadigli e croci sulla bocca2 e mi sono coricato senza candela. Tuttavia, voglio pure, alla mia morte, lasciarvi un qualche segno di amore; perciò tu, Oraziello, che sei il mio primogenito, prenditi quel crivello là appeso al muro, col quale potrai guadagnarti il pane. E tu, che sei il cacanido3, pigliati la gatta, e ricordatevi di tata vostro -. E così dicendo ruppe in lacrime, e poco dopo concluse: – Addio, che è notte!

Oraziello, provveduto a far seppellire il padre per carità, prese il crivello e andò correndo di qua e di là per guadagnarsi da vivere; e quanto più setacciava, più guadagnava. Ma Cagliuso, tolta via la gatta, sospirò: – Sta’ a vedere che cavolo di eredità m’ha lasciato mio padre! Non ho da campare per me solo, e ora dovrò arrabbattarmi per due! Cosa avrà creduto di fare con questo misero lascito? Meglio che ne avesse fatto a meno! Ma la gatta, che udì questa lamentela, gli disse: – Tu ti lagni del troppo, e hai più fortuna che cervello. Tu non riconosci in me la tua sorte, ché son buona a farti ricco, se mi ci metto.

A tale vanteria, Cagliuso ringraziò Sua Gatteria, e, facendole tre o quattro lisciate di pelo sulla schiena, le si raccomandò caldamente.
Allora la gatta, compassionevole del povero Cagliuso, tutte le mattine, quando il Sole, con l’esca della luce infilata all’amo d’oro, pesca le ombre della Notte, andava a piantarsi alla marina di Chiaia o alla Pietra del pesce4, e, prendendo di mira qualche grosso cefalo o una buona orata, la sgraffignava e la portava al Re, dicendo: – Il signore Cagliuso, schiavo della Vostra Altezza, alta fino al lastrico del terrazzo, vi manda questo pesce con riverenza, e dice: «A gran signore piccolo presente». Il Re, col viso sorridente che suole mostrare a chi gli porta doni, rispondeva alla gatta: – Di’ a questo signore che non conosco che lo ringrazio a gran mercè.

Qualche altra volta la gatta correva là dove si praticava la caccia, alle Paludi o agli Astroni5, e non appena i cacciatori facevano cadere qualche rigogolo, qualche cinciallegra o capinera, la raccattava e correva a offrirla al Re con il medesimo messaggio. E tante volte praticò questo artificio, finché una mattina il Re le disse: – lo mi sento così obbligato a questo signor Cagliuso, che desidero conoscerlo per ricambiare tutta la devozione che mi ha dimostrato.
E la gatta gli rispose: – Il signore CagIiuso desidera solo mettere la propria vita e il proprio sangue a servizio della vostra corona; e domattina, siatene certo, quando il Sole avrà dato fuoco alle ristoppie dei campi celesti, verrà qui a riverirvi.
Ma, giunto il mattino, la gatta ritornò dal Re e gli disse: – Signore mio, il signor CagIiuso manda a scusarsi se non viene, perché questa notte alcuni servi suoi sono fuggiti senza lasciargli nemmeno la camicia.
Il Re, a tale contrattempo, fece subito prendere dal suo guardarobiere dei vestiti e della biancheria, e li mandò a Cagliuso, cosicché questi, dopo circa due ore, si presentò a Palazzo, condotto dalla gatta.
Il Re gli fece mille complimenti, e, concessogli l’onore di sedere alla sua destra, gli offrì un banchetto coi fiocchi. Ma, mentre si mangiava, di tanto in tanto Cagliuso si rivolgeva alla gatta, dicendole: – Micia mia, ti siano raccomandati i miei vecchi cenci, che non si perdano -. E la gatta rispondeva: – Sta’ zitto, chiudi il becco, non parlare di queste miserie! – E il Re premurandosi di chiedergli cosa volesse, la gatta rispondeva che gli era venuta la voglia di un limoncello; e il Re mandò subito i servi nel giardino a prenderne un cestino. Ma Cagliuso tornò alla stessa musica dei suoi stracci dismessi, e la gatta tornò a dirgli che turasse la bocca, e il Re chiese di nuovo cosa desiderasse, e la gatta pronta con un altro pretesto, per rimediare alla meschinità di Cagliuso.
Infine, dopo aver mangiato e chiacchierato per un pezzo del più e del meno, Cagliuso chiese licenza e andò via. La gatta rimase con il Re e si prodigò a descrivere il valore, l’ingegno, il giudizio di Cagliuso, e innanzi tutto le grandi ricchezze che egli possedeva nelle campagne di Roma e della Lombardia, per le quali era degno d’imparentarsi con un re di corona. Il Re, allora, chiese a quanto potesse ammontare il patrimonio di questo signore, e la gatta rispose che era impossibile fare il conto esatto di tutti i mobili, degli stabili e delle suppellettili di questo riccone, che non aveva cognizione di tutto quello che possedeva; e che se il Re volesse informarsene, mandasse con lei dei suoi emissari fuori del regno, che gli avrebbe fatto conoscere con prove che non c’era ricchezza al mondo paragonabile a quella.

Il Re convocò alcune sue persone fidate e comandò loro che andassero a prendere dettagliate informazioni al riguardo. Quelli seguirono i passi della gatta, la quale, col pretesto di precederli per procacciare loro dei ristori lungo la strada, di tappa in tappa, come fu uscita dai confini del regno, correva innanzi, e quanti greggi di pecore, mandrie di mucche, razze di cavalli e branchi di maiali incontrava, diceva ai pastori e ai guardiani: – Olà, state attenti, che un gruppo di banditi ha l’intenzione di saccheggiare quanto si trova in queste campagne! Però, se volete scampare dalla loro violenza e salvare le vostre cose, dite che sono proprietà del signor Cagliuso, e non vi sarà torto un solo capello -. Similmente diceva per le masserie che trovava lungo il cammino; cosicché, dovunque i regi emissari arrivavano, trovavano una zampogna accordata, sentendosi rispondere che tutte le cose dei dintorni erano del signor Cagliuso. E allora, stanchi di chiedere oltre, tornarono dal Re e gli riferirono mari e monti della immensa ricchezza del signor Cagliuso. A tal punto, il Re promise un lauto compenso alla gatta se trattava il matrimonio, e la gatta, fatta la spola di qua e di là, alla fine concluse il parentado.
Venne Cagliuso, e il Re gli consegnò la figlia con una ricca dote, e, dopo un mese intero di festeggiamenti, lo sposo disse che era tempo di condurre la sposa ai suoi feudi; e allora, accompagnato dal Re fino ai confini, se ne andò in Lombardia, dove, per suggerimento della gatta, acquistò un bel po’ di territori e terre, e divenne barone.

Ora, Cagliuso, vedendosi ricco sfondato, non la finiva di ringraziare la gatta, dicendo che solo da lei riconosceva la vita, e dai suoi buoni uffici l’agiatezza sua, e che gli aveva giovato più la destrezza di una gatta che l’ingegno del padre. Perciò essa poteva fare e disfare a suo piacere della roba e della sua vita, e le giurò che quando fosse morta, di là a cento anni, egli l’avrebbe fatta imbalsamare e collocare in una gabbia d’oro posta nella stessa camera sua, per avere sempre dinanzi agli occhi il suo ricordo.
All’udire questa millanteria, la gatta lasciò trascorrere tre giorni, indi si distese lunga lunga per terra fingendosi morta, e la moglie di Cagliuso, vedendola, gridò: – O marito mio, che grande disgrazia! la gatta è morta!
– Che si porti via con sé ogni male! – rispose Cagliuso. – Meglio a lei che a noi!
– E ora che ne facciamo? – replicò la moglie. Ed egli: – Prendila per un piede e gettala dalla finestra!
La gatta, che udì questo benservito che non si sarebbe mai aspettato, cominciò a dirgli: – Questo è il grazie tante dei pidocchi che ti ho tolto di dosso? Questo è il ti son grato dei cenci che t’ho fatto gettare, ai cui sfilacci potevi attaccare i fusi? Questo è il ricambio di averti collocato a guisa di ragno e di averti sfamato quando eri un morto di fame, pezzente, toppa-aI-culo, scalcinato, mezzacamicia, ingoia-candele, accattone, merdoso, spoglia-morti? Questo capita a chi lava la testa all’asino! Va’, che ti sia maledetto tutto quel che t’ho fatto, ché non meriti nemmeno che ti si sputi in bocca! Bella gabbia d’oro, che mi avevi apparecchiata! Bella sepoltura, che mi avevi decretata! Ecco qua, servi tu, stenta, fatica per guadagnarne questo bel premio! O disgraziato chi mette la pentola facendo assegnamento sugli altri! Disse bene quel filosofo: chi asino si corica, asino si ritrova! Insomma, chi più fa meno aspetti, ma buone parole e tristi fatti ingannano sia i savi che i matti.

Così dicendo e tentennando il capo, si diresse fuori casa, e per quanto Cagliuso, con l’esca dell’umiltà, tentasse di gratificarla, non vi fu verso che tornasse indietro, anzi, sempre correndo senza voltare il capo, andava ripetendo

Dio ti guardi da ricco impoverito,
o da pezzente quando sia arricchito.

 

  • 1 Il crispano è il borsellino. Questo bel gioco di parole significa: avere il borsellino liscio, vuoto, senza un soldo che ne increspi minimamente il fondo.
  • 2 Dopo aver sbadigliato per la fame, era uso popolare fare piccoli segni di croce sulla bocca affinché non vi si infilassero spiriti maligni. Scriveva il Tassoni (Secchia rapita, IV, 8): «Cerca di qua, cerca di là, né trova I Cosa da farvi il minimo disegno, I Sbadiglian tutti e fan crocette a prova, I E l’appetito lor cresce lo sdegno».
  • 3 Questa stessa espressione, che sta per «l’ultimo nato della nidiata», viene usata da William Shakespeare nelle Allegre comari di Windsor (atto III, scena III).
  • 4 Così venivano chiamati i luoghi dove si raccoglieva la pesca destinata alla vendita all’ingrosso,
  • 5 Due zone di caccia, La prima era una zona acquitrinosa nella parte orientale della città, La seconda, vicino al lago di Agnana, era la riserva reale di caccia.Costantino Fortunato è tratto da Piacevoli Notti di Giovan Francesco Straparola, Laterza; Cagliuso è tratto da Il cunto de li cunti di Giambattista Basile nella riscrittura di Roberto De Simone, Einaudi)

ALTRI GATTI…

  • ZORBA è il grosso gatto nero protagonista del romanzo dello scrittore cileno Luis Sepúlveda Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (e del film di animazione che ne è stato tratto). La gabbiana Kengah, investita nell’oceano da un’onda densa di petrolio, cade morente nel balcone di Zorba e si fa promettere da lui di non mangiare l’uovo che sta per deporre, di averne cura fino alla sua schiusa e di insegnare a volare al piccolo una volta che questi fosse cresciuto. Zorba, cova l’uovo e insieme ai suoi amici felini si prende cura della gabbianella Fortunata…

  • SILVESTRO è un personaggio dei cartoni animati; è un grosso gatto nero con la pancia bianca, il naso rosso e rotondo e lunghi ciuffi sui lati del muso. Perennemente affamato, cerca sempre di catturare il canarino Titti ma non ci riesce mai, un po’ per la sua sfortuna, un po’ per la sua goffaggine, ma soprattutto perché Titti è solo apparentemente ingenuo, in realtà è molto furbo e ingegnoso. Quando Titti si accorge della presenza di Silvestro, che magari si è travestito per passare inosservato, dice con la sua classica erre moscia: “Oh Oh mi è semblato di vedele un gatto”

  • TOM è un personaggio dei cartoni animati; è un gatto grigio e bianco sempre in lotta con Jerry, un topolino di colore marrone, veloce, intelligente e molto furbo, Tom, ingenuo e maldestro, si diverte ad ideare piani per afferrare il suo piccolo nemico. Ma i suoi piani sono sempre destinati a fallire.

  • STREGATTO è un personaggio di Alice nel paese delle meraviglie dello scrittore inglese Lewis Carroll (e del film di animazione di Walt Disney). È una creatura strana e inquietante, l’unico gatto in grado di sorridere a trentadue denti, di alzarsi le orecchie con la coda, di sparire e riapparire (anche a pezzi) e di fare tante altre cose strane.

  • GATTO CON GLI STIVALI, personaggio dei film Shreck 2 e Shreck 3, il più abile spadaccino e cacciatore di orchi di tutto il reame. All’inizio è incaricato di liberarsi dell’orco Shrek, ma poi i due diventano grandi amici. Astuto e intrigante Gatto usa il suo buffo e insieme accattivante accento spagnolo per conquistare tutte le feline del regno. Nei combattimenti usa la spada e le unghie, ma spesso lo salvano i suoi teneri occhioni.

  • Gli ARISTOGATTI sono i protagonisti dell’omonimo film di Walt Disney. Duchessa è una raffinata gatta bianca madre di tre gattini, Minou (bianca), Bizet (nero) e Matisse (arancione). Quando la padrona decide di lasciare a loro l’eredità, piuttosto che al maggiordomo Edgar, questo si ingelosisce e decide di sbarazzarsi dei gatti. Duchessa e i suoi piccoli riusciranno a tornare a casa grazie al gatto randagio Romeo e alla banda di Scat-Cat.

  • GARFIELD, protagonista di un fumetto (e poi di film), è un grasso gatto rosso tigrato molto pigro e goloso, che passa le giornate su una comoda poltrona a guardare la tv, a mangiare (le lasagne sono il suo cibo preferito), a giocare con un orsacchiotto di peluche, a dormire, superviziato da un padrone che l’adora.

  • JINNKS, protagonista di un cartone animato, è un gatto arancione e con un fiocchetto azzurro al collo, che dà sempre la caccia a Pixie e Dixie, due topini grigi (il primo indossa sempre un gilet, l’altro un farfallino azzurro) che cercano di procurarsi qualche provvista nella cucina sorvegliata da Jinks, che, imbranatissimo, non riesce mai a catturarli. Celebre la sua frase: “Maledetti topastri!!!”.

La casella di posta elettronica info@casadellospettatore.it 
è a disposizione di quanti vogliano stabilire un contatto diretto 
con lo Sportello didattico dei Teatri di Bari, per confrontare 
esperienze, spunti e modalità di impiego delle schede

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